Basta poco, a volte, per rivivere momenti della nostra recente storia agricola. Basta un incontro casuale, ritrovare vecchi amici, ed ecco immergersi negli antichi mestieri di un tempo.
L’epoca.
Ci troviamo agli inizi del 1800.
Gli attori.
U trappitu[1], i trappitari[2], l’asino (per i più ricchi un cavallo), i portantini, le olive.
Il luogo.
Saracena, terra antichissima, edificata dagli Enotrii nel 2256 a.C., poi conquistata dai Saraceni (da qui il toponimo), posta alle porte del Pollino, nel cuore dell’omonimo Parco Nazionale.
La storia.
Saracena, la “kasbah” del Pollino, caratterizzata dai vicoli stretti e contorti che si snodano tra scale, scalini e “vutanti”. La citta dai mille scalini, molti dei quali, nei tempi, sono stati percorsi a piedi, a volta scalzi, per portare un “tomolo”[3] di olive al frantoio. Scalini segnati dai passi dei tanti giovani che realizzavano così le loro scarse pretese di un pasto caldo a fine giornata, scalini segnati da un rivolo d’olio che dai sacchi via, via scorreva dapprima sui vestiti dei portanti per cadere, infine, sul suolo sterrato, frammisto a ruvide pietre del luogo.
E tra imprecazioni e dolore, fatica ed esecrazioni il sacco arrivava su, in cima, nel frantoio padronale.
Sono queste le parole, appassionate, di Zi’ Domenico, di quasi cent’anni, ultimo portantino e custode dell’antico frantoio “a sangue”[4] di Saracena, relitto archeostorico di un passato industriale non molto lontano. Ed è grazie allo Zi’, che tutta questa storia si può ancora rivivere, nell’antico borgo, attraverso i suoi racconti.
Colpisce l’amore con cui narra la sua pur difficile gioventù, si infervora a parlare delle macine, in pietra locale, scolpita direttamente in frantoio. Si entusiasma, Zi’ Domenico, a parlare di tecnologia olearia ante litteram. Ci spiega come avvenivano le fasi dell’estrazione dell’olio in frantoio. Le olive sversate nella grande gramola, l’asino che fa muovere le macine, la frantumazione delle olive ed il carico dei fiscoli[5], la torre di pressione, la torchiatura, il sudore e la fatica necessaria per stillare ogni singola goccia del prezioso oro verde. Fatica nel muovere l’ “ominu mortu”[6], collegato alla pressa tramite una corda metallica, solitamente in acciaio, grossa e resistente che, attorcigliandosi, si tendeva esercitando pressione.
E poi l’acqua calda, per separare e far affiorare l’olio di oliva, e la pija[7], magistralmente adoperata per raccoglierne l’olio. E tutto il resto via, le sanse in un’altra stanza e l’acqua all’inferno[8], prima di esser sversata per le vie.
Le parti da dividere: poco o nulla per chi raccoglieva e portava le olive in frantoio, una piccola parte per chi organizzava l’estrazione dell’olio e, tutto il resto, per il “padrone”.
Si era quindi autorizzati a “rubare”, raccogliendo di soppiatto dall’inferno, le ultime gocce di olio lampante celato tra le fetide acque di scarto, utile solo per rischiarare, con lucerne, le lunghe notti invernali.
Il tempo si è fermato, si rimane affascinati dal racconto, apprendendo così gli antichi mestieri legati all’olio e alle olive, quello del trappitaru. Ma ancor di più affascina lui, l’ultimo dei vecchi portantini. Grazie a lui questa storia, ancorata indissolubilmente alla terra, ancora vivrà in mille suoi nuovi racconti.
Grazie Zi’ Micuccio.
NDA: Zì Micuccio, ultimo erede e testimone dei fatti accaduti nell'antico frantoio, è volato in cielo nel 2014.
[1] dal latino trepetum o trapetus, ovvero luogo dove sono posizionate le macchine del frantoio.
[2] frantoiani.
[3] antica unità di misura di capacità, dal peso variabile tra i 40 ed i 52 kg.
[4] In questo tipo di frantoio, la mola per frangere le olive veniva azionata da forza animale.
[5] dischi in corda di canapa (o di sparto) intrecciata, usati per contenere le olive macinate.
[6] grosso palo in legno fatto ruotare dalle braccia forti degli uomini.
[7] disco metallico di forma circolare, leggermente conico, utilizzato per raccogliere l’olio affiorante.
[8] locale in cui si ubicavano le vasche di stoccaggio dell'acqua di vegetazione.